L’estetica delle mode

E’ bello ciò che è bello o è bello ciò che piace?

Articolo a cura di – Emanuele Aschi

Ecco un articolo in cui vediamo come lo studio della filosofia possa essere interiorizzato applicato e impiegato durante la lettura dei fenomeni del mondo. Non si tratta di “ripetere la lezione”, quanto di usarla per fornire possibili interpretazioni.

Una costante delle nostre vite è rappresentata dalle mode. Il concetto alla base delle mode prevede che qualcosa (che può essere un capo di abbigliamento, una canzone, una pietanza, e molto altro) piaccia a molte persone, così che diventi “di tendenza”. Dunque le mode si fondano su gusti condivisi. Allo stesso tempo però, da sempre viene detto che non bisogna farsi piacere ciò che va di moda solo perché, appunto, va di moda, ma che i gusti sono puramente soggettivi. Da qui la domanda sorge spontanea: è bello ciò che è bello, o è bello ciò che piace? Per rispondere facciamo un passo indietro.

E’ il 1790 quando Immanuel Kant pubblica la “Critica del Giudizio”. L’obiettivo del filosofo tedesco è quello di definire l’esperienza del bello come qualcosa di condivisibile e quindi universale. Questo perché Kant voleva superare l’empirismo inglese, che aveva definito il bello come un giudizio soggettivo. La condivisibilità però, secondo Kant, non si sarebbe fondata su regole ben precise (o su de canoni), ma su un sentimento “comune”. Rinunciare all’universalità del bello significava rinunciare a un’intera tradizione artistica, che si fondava, appunto, su giudizi comuni e comunicabili. D’altra parte, questa universalità non poteva fondarsi su delle regole, al pari di una legge scientifica: questo infatti avrebbe completamente annichilito la tesi che il giudizio del bello dipenda da un sentimento. La riflessione di Kant è molto più ampia di quanto abbiamo riassunto in queste righe, ed è sicuramente esito anche della tradizione a lui precedente e contemporanea (Leibniz, Baumarten, Marivaux e tutte le considerazioni sul “non so che”). Ad ogni modo, la difficoltà della Critica del Giudizio è palpabile: verrebbe infatti da chiedersi come faccia qualcosa a essere universale se non si fonda su alcuna regola, o, come scrive lo stesso Kant nella critica, su “una regola che non si può addurre”. Per rispondere a quest’altra domanda facciamo ora un passo avanti, e torniamo ai giorni nostri. 

Grazie alle mode possiamo comprendere chiaramente quello che Kant voleva intendere con questa “universalità senza concetto”. Non c’è una legge che spieghi per quale motivo ora vada di moda un determinato paio di scarpe, e tra un anno ne vada di moda un altro. Questo fenomeno si fonda semplicemente su un gusto collettivo e sulla sua comunicabilità. Perché quando ci piace una determinata cosa, vogliamo che quella cosa sia bella anche per gli altri, così da arrivare a quel sentimento comune di cui parlava Kant. In questo modo è possibile parlare di gusti, poiché se essi fossero totalmente soggettivi non sarebbe possibile discuterne argomentando. E quindi è bello ciò che piace? In realtà no, o meglio, non solo. E’ vero che è grazie alle mode che possiamo discutere dei giudizi; allo stesso tempo però, proprio perché il bello non si fonda su canoni, le mode non sono un “diktat” da seguire. Anzi, la stessa comunicabilità su cui si reggono le mode è resa possibile anche da chi non aderisce ad esse: se a tutti piacesse lo stesso paio di scarpe, non avrebbe senso discuterne. Questo vuol dire – per rispondere alla domanda iniziale – che è bello sia ciò che è bello, sia ciò che piace: il bello è di per sé un giudizio soggettivo che sfruttando il trampolino di lancio delle mode, vuole arrivare ad essere universale. Ma proprio il fatto che non è un’universalità che tutti devono accettare, questo rende il bello un’esperienza unica, cioè un’esperienza universale e soggettiva, il che sembra quasi una contaddizione. Tuttavia, per concludere, è bene segnalare, a scopo puramente informativo, che Kant traccia una distinzione importante tra ciò che è “bello”, ciò che è “buono” e ciò che è “piacevole”: il nostro scopo qui era solo quello di utilizzare Kant per riflettere, e non spiegare nel dettaglio la Terza Critica.

Copertina: Pixabay

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